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Tu chiamale se vuoi… fiere

Fruit Logistica 2023 chiude i battenti. Analisi personale dei principali trend, del valore oggi delle fiere, del grado di soddisfazione e di utilità, di ciò che serve e di ciò di cui si potrebbe fare a meno. Quindi che fiera, o meglio, che relazione è stata…

In inglese si dice “exibition fair”. Nel significato originario si tratta dell’occasione di esibire, di presentare l’ultima novità o l’innovazione del momento al settore di riferimento. Si mostra ciò che si è, ciò che si fa e soprattutto ciò che si ha di nuovo puntando sui cosiddetti punti di forza. Il tutto per conquistare la clientela, vendere e firmare contratti. Per questo sono nate le fiere. Accade così nel settore del mobile e della moda in cui buona parte dei fatturati annuali viene deciso alle fiere in base alle novità presentate. Non solo, il modo con cui si partecipa come il posizionamento e la dimensione dello stand, la cura e la ricerca dell’allestimento è la coerente rappresentazione del ruolo che si ambisce di avere sul mercato. Un leader si vede anche da questo, perché come si sa in comunicazione la regola è la coerenza con la promessa di posizionamento. Diversamente il messaggio se è distonico crea confusione, insomma più danni che benefici.

In avvicinamento a Fruit Logistica 2023 le analisi in premessa degli osservatori avevano il barometro rivolto al peggio. I dati raccontavano di un calo del 26% degli espositori rispetto al 2020, ultima edizione prima della pandemia. Il numero delle aziende italiane cala di sessanta unità ma nella contrazione generalizzata l’Italia ha rafforzato la propria leadership per rappresentanza percentuale al 18%, con tutti gli altri, spagnoli in testa, in calo. Queste le attese nelle righe delle newsletter. Nei fatti tra i corridoi dei padiglioni poche e rare innovazioni, ne è la dimostrazione l’asciuttissimo Innovation Award della fiera di quest’anno. In merito alle novità… per onestà non erano tante in ambito produttivo. Al contrario decisamente sì in fatto di macchinari e packaging: dallo sviluppo di nuove tecnologie di raccolta e selezione sempre più informatizzate presentate al Tech Stage a imballaggi e confezioni sempre più di carta e cartone rinnovabile disponibili a tutte le latitudini, vedi tutto il nord Africa collocato al City Cube, a testimonianza che questo non è più un trend ma la regola dei prossimi anni.

Nei padiglioni diverse riallocazioni, alcuni assenti importanti e alcuni ritagli vuoti di risulta riadattati a luoghi di approfondimento o di accampamento per i visitatori più stanchi. In termini espositivi è proprio vero che siamo l’Italia dei campanili. Qualcuno potrebbe dire sinonimo di tante eccellenze, altri di ordine sparso, per esempio si è consolidata la presenza di più “Italie” in fiera. Certamente non diamo l’idea di un sistema Paese chiaro nella promessa di cosa sa fare, per esempio non come l’Olanda che organizza come sempre i suoi spazi con una precisa identità espositiva affiancata dall’identità dei singoli, il tutto pensato in ottica di presentare i prodotti e non di accoglienza dei propri Cda. Questo per parlare del contesto osservato a fiera chiusa e senza sapere i numeri puntuali di affluenza. Nel merito anche una minore presenza dei buyer della GDO italiana ma anche, mi dicono, di quella straniera.

Quindi, contenti di come è andata? E quale lezione trarre? Sottolineando che il giudizio è profondamente personale e che dipende dal nostro specifico ambito di attività, nell’ordine alcune riflessioni. Primo, Berlino ha ancora un grande valore, di innovazioni in ortofrutta non tanto si vede ma è la piazza per presentare al mondo le vere innovazioni, di prodotto, macchine e pack. Poi consente di incontrare in un giorno e mezzo la stragrande maggioranza degli interlocutori ortofrutticoli italiani. Per noi è stato così. Secondo, come in tutte le fiere, nella quasi totalità dei casi gli incontri sono già tutti pianificati, difficile poi per la produzione attrarre nuovi clienti e, dal confronto con i più, è sempre meno luogo di imbastitura o tanto meno di definizione di contratti. Terzo, è vero, i numeri descrivono le tendenze e dalle tendenze nascono le mode. Madrid oggi, anche per tipologia di attrattività e forse pure periodo, è decisamente più di moda di Berlino per le fiere dell’ortofrutta. La prima in crescita sui numeri complessivi e la seconda in flessione anche se per il singolo, viste le 24 ore a disposizione per tutti, credo cambi poco se i visitatori possano passare da 80 mila a meno di 60 mila. Dubito che qualcuno pensi di poterli incontrare comunque tutti. Quarto. Se in ortofrutta c’è poca innovazione e per questo qualcuno, interpretando il ruolo originario, ha ipotizzato in alcuni casi frequenze biennali, è evidente lo spasmodico desiderio di incontro in fisico di questo settore, il valore e il ruolo della relazione: lo conferma il fatto che anche chi ha deciso di non esporre più poi tra i corridoi della fiera è ben presente, anzi ben rappresentato ai massimi livelli. In sintesi veniamo tutti a Fruitlogistica per cementificare e rinverdire le relazioni. Allora se così è nel costante dibattito fieristico quando ci chiediamo di quante e di quali fiere, con relativa collocazione geografica, abbiamo bisogno forse sbagliamo domanda.

Al netto delle novità vere, delle innovazioni frutto della ricerca che necessitiamo di “esporre”, lo si diceva in apertura, il settore ortofrutticolo italiano di quante occasioni di incontro ha bisogno all’anno, con quale frequenza e con quale impostazione, così che possano essere di utilità vera da aggiungere al quotidiano peregrinare dei commerciali? Facendo un rapido conto sono già otto le occasioni annue fisiche di incontrodistribuite da metà gennaio a fine novembre: una al mese togliendo i mesi estivi e le vacanze invernali. Quali ci servono? Cosa ci manca? Ecco, personalmente torno a casa anche con queste domande. Intanto non chiamiamole più fiere, ma ottime relazioni.

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