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Competenza e esperienza non scadono!

La visione di Paolo De Castro di noi, degli italiani e dell’agricoltura tra treni persi e grandi opportunità, dei ruoli reciproci e delle mete da condividere

Paolo De Castro non ha bisogno di presentazioni, né alla larga platea generalista né tanto meno a quella più ristretta delle comunità professionali in cui ha sempre operato. La sua lunga e prestigiosa carriera professionale nello studio, nella ricerca, nell’insegnamento e poi in politica sui temi dell’agroalimentare gli ha portato meritata notorietà a livello nazionale e internazionale, incarichi importanti e riconoscimenti prestigiosi: li trovate tutti raccolti qui, nella sua biografia online all’interno della sua pagina istituzionale. Anche per questo nelle righe seguenti ci dedicheremo ad altro, concentrandoci più sul percorso che sulle medaglie che ne hanno impunturato le curve e i momenti. Lo si dice spesso, è il carattere di ciascuno che genera l’approccio, mentre poi sono indoli e passioni che ne determinano ambiti e applicazioni in cui ognuno decide di cimentarsi. Per questo ha un valore conoscere la persona prima di tutto e capire i suoi perché dato che, usando una frase che in questo periodo non mi esce dalla testa, la vita è per il 10% ciò che ti accade e per il 90% come reagisci.

Ho cercato Paolo De Castro per questo, nell’idea che il racconto complessivo delle persone della filiera ortofrutticola ne potesse giovare in completezza e profondità, potendo raccontare un piano diverso di responsabilità, esperienze, priorità e punti di vista, con l’idea di andare più dietro all’uomo per poter poi a seguire comprendere meglio il professore e il politico che gli sta davanti.

Secondo il “pagellone” redatto da Edizioni Turbo by Tespi Mediagroup sei stato il migliore Ministro dell’Agricoltura tra gli ultimi dieci che si sono succeduti. Voto 8,5. Davanti a Zaia, Martina e Catania. Come si fa a essere il migliore?

Non so rispondere sul come si fa, e non credo possa esistere una formula di qualsivoglia tipo che lo possa garantire. Ringrazio tutti coloro che hanno ritenuto di mettermi al vertice di questa classifica. Ciò che posso dire è come io ho cercato di ricoprire quel ruolo e far fronte a quelle responsabilità. Vengo dalla didattica e dalla ricerca. Mi sono occupato a livello accademico dei temi agricoli e agroalimentari seguendo tutta la trafila accademica, da borsista prima, associato poi e infine ordinario, occupandomi di agricoltura e di economia e politica agraria. Ho avuto la fortuna di affiancare il Presidente Prodi come tecnico su questi temi, di conoscere profondamente le istituzioni in qualità di special advisor, poi l’onore, per tre volte, della responsabilità del Ministero di via XX Settembre e poi come presidente di Commissione in sede europea. Credo che l’esperienza sia più importante della competenza, nella conoscenza delle dinamiche, dei regolamenti e dei tempi così come nella costruzione delle relazioni. I trattati europei per esempio si modificano continuamente e sostanzialmente, pensiamo a Lisbona e a quanto siano cambiate le norme che governano parlamento e Consiglio europeo, e poi ancora la novità dei trologhi oggi divenuta prassi. L’Europa approva leggi e regolamenti in metà tempo di quanto fa l’Italia. È una complessità che funziona.

Un salentino a Bologna. Che Bologna era quella della fine degli anni ‘70?

Bella ma complessa. Quelli erano gli anni della contestazione giovanile. Un clima sociale molto caldo in cui però c’era molta voglia di emergere e lavorare. Ho avuto un rapporto privilegiato in Università, io con altri quattro o cinque studenti riuscimmo a ritagliarci una sorta di enclave a diretto contatto con gli allora totem della cultura agraria come il prof. Patuelli, il prof Amadei e il prof. Di Cocco. La popolazione studentesca allora era molto più rarefatta di oggi e c’era l’opportunità di costruire un rapporto stretto con i professori. Tutte le mattine alle 9.30 in Istituto di Economia Agraria c’era il rito del caffè, noi con loro. Li ascoltavamo fare le loro pennellate, riflessioni e discussioni sull’attualità che condividevano senza filtri con chi di noi, dal secondo e terzo anno, era lì ad ascoltarli. Io come studente interno ero poi ancora più a contatto diretto. Il prof. Di Cocco ritengo sia stato uno dei più grandi economisti agrari del suo tempo, al pari di Malassis che però all’epoca non raggiunse la stessa fama per la mancanza delle versioni in altre lingue dei sui testi. L’integrazione di filiera fu una delle sue intuizioni.

Si parlava di popolazione studentesca più circoscritta. Oggi, dopo una forte crisi di vocazioni accademiche sui temi agricoli, le facoltà di agraria stanno vivendo grandi vitalità e numeri di iscritti in crescita, perché?

È vero, dopo una forte flessione la curva degli studenti impegnati sui temi agricoli e agroalimentari è tornata a crescere sia per singolo ateneo ma anche grazie alla proliferazione delle facoltà in Italia. Oggi ce ne dovrebbero essere 22 o 23, mentre in Francia solo 8. Nomisma su questo fece una ricerca, ne venne fuori “il paradosso della via Emilia” con 5 facoltà in 200 km. A volte si esagera. Abbiamo confuso i benefici della proliferazione con i limiti del provincialismo. Sia chiaro, il diritto allo studio deve essere sacrosanto, ma ancora di più quello dell’offerta didattica di qualità. Ecco se di merito si vuole parlare, credo che occorra riconoscere i diversi livelli di offerta formativa. Aprire nuove facoltà, al di là dei benefici e delle garanzie che questo offre poi agli studenti, è un esercizio complicato specialmente nel mantenimento dell’alto livello qualitativo dei docenti. In questo credo che occorra mantenere bene a mente che il focus principale è la preparazione degli studenti e le opportunità che si creano per collocarli, questo prima di tutto, anche prima della collocazione dei docenti.

Però come risultato riscontriamo anche un ritorno dei giovani in agricoltura.

C’è decisamente una nuova primavera dei giovani in agricoltura, o meglio degli imprenditori agricoli con meno di 40 anni, che è comunque un’altra cosa, derivata dalla consapevolezza che il settore può offrire nuove opportunità. L’export alimentare italiano ha superato i 60 miliardi di valore e in un mondo che cambia velocissimamente chi lo interpreta meglio sono i più giovani. C’è il tema dell’utilizzo delle nuove tecnologie, la disponibilità all’innovazione e al cambiamento. Un dato? EIMA, la fiera della meccanizzazione agricola italiana ha fatto 300.000 presenza, siamo i primi al mondo in generale e la seconda fiera nelle trattrici, questo testimonia la nostra vocazione all’investire oggi in agricoltura.

La passione per l’agricoltura quando e come nasce?

Sono nato in una cantina sociale. Nella famiglia di mio padre erano undici fratelli. Diventò avvocato e al ritorno dalla guerra decise di dedicarsi all’azienda del nonno che nel frattempo era stata suddivisa. Mio padre è nato nel 1914 e se oggi fosse vivo avrebbe 108 anni, un’altra epoca. Sono vissuto così dentro una cantina con i profumi del mosto. Seguirlo era la mia passione giovanile. Da qui l’idea di approfondire gli studi, scelsi Bologna. Al termine si pose una delle mie prime scelte di vita: rientrare a casa come voleva mio padre o investire nella carriera universitaria, così chiesi in Facoltà delle possibilità. “Perché me lo chiedi? Tu puoi rimanere!” fu la risposta.

Si parlava di scelte, di personaggi che le ispirano e le indirizzano. Come è avvenuto l’incontro con il Presidente Prodi?

Erano gli inizi degli anni Novanta e io ero da quattro anni Professore Associato a Sassari. Giuseppe Medici era Presidente di Nomisma, succeduto a Romano Prodi, rimasto Presidente del Comitato scientifico, divenuto nel frattempo Presidente dell’IRI. In quegli anni crebbe l’idea di dar vita dentro Nomisma a un gruppo specializzato sui temi dell’agroalimentare. Fabio Gobbo, un economista bolognese, che poi ha avuto anche incarichi politici con Enrico Letta e con lo stesso Presidente Prodi, si ricordò di un giovane associato che da qualche tempo da Bologna era a Sassari. Fu una delle più belle telefonate della mia vita. Mi chiamarono, mi chiesero se volevo rientrare e se mi interessava gestire e coordinare i lavori di ricerca sui temi agroalimentari in Nomisma. Risposi di sì prima che terminassero la domanda, la valigia era pronta mentre ancora la cornetta penzolava. Furono gli anni dell’Osservatorio sul mercato ortofrutticolo in cui lavorai tra gli altri anche con Roberto Della Casa e in cui si specializzò in agricoltura un folto gruppo di ricercatori brillanti destinati a carriere tutte significative. Poi come è noto nel 1994 il Presidente Prodi venne proiettato in politica e fu un cambiamento che riguardò tutti noi.

A tal proposito Nomisma è stata una fucina di grandi tecnici e professionisti dell’agroalimentare. In Italia non ci sono scuole di politica come in altri paesi come la Francia. È per questo che ricorriamo ai tecnici in politica quando siamo in affanno, e poi quando la politica torna il rischio è scivolare sulle competenze?

Nomisma fu una felicissima intuizione di un decennio prima, l’apertura della connessione tra il mondo economico e quello universitario, quando si affermò una generazione di grandi professori. Alberto Quadrio Curzio, Nicola Cacace, Beniamino Andreatta, così come poi suo figlio Filippo, fino a Umberto Clò. Una generazione di giganti che aprì la strada a molti. Noi abbiamo la Scuola della Pubblica amministrazione a Roma, ed è un’ottima scuola. Non so dire quindi se è un tema formativo ma se osservo l’oggi non si può non vedere il decadimento della politica degli ultimi due decenni. Si è persa l’attenzione al valore della competenza e della professionalità rubati dalla cometa del nuovismo. La politica è fatta di persone, ciucce o brave, in base a questo si deve decidere se devono continuare a fare politica o meno, non in funzione del numero di legislature. Qui a Bruxelles gli esperti o i professionisti se li coccolano e non li fanno andare via se sono bravi. Quindi è un bene che si torni a parlare di merito, perché è su questo che si devono fondare le scelte. La competenza cresce nel tempo e non il contrario, non ha scadenza. Invece a volte si mettono sullo stesso piano le opinioni diverse senza contare il grado di competenza di chi le dice: sull’astrofisica non può avere lo stesso peso l’opinione di un premio Nobel in materia con quella dell’uomo della strada.

Un aneddoto. Facevo l’assistente a Roberto Della Casa nel corso di Marketing dei prodotti agroalimentari alla Facoltà di Economia e Commercio di Bologna al campus di Forlì. In un gioco di sostituzioni mi ritrovo a Bologna a tenere lezione a un tuo corso. Le mille Università di oggi riescono a creare i professionisti con la professionalità che il mercato chiede?

Certamente sì! Poi in tutti i campi ci sono quelli bravi e quelli meno, la macchina quindi funziona e sono poi le persone, come sempre, che fanno la differenza. Anima e passione, come in tutto, sono determinanti. Io ho avuto diverse esperienze in Ateneo; ora, che sono in aspettativa, quando talvolta vado e racconto di politica agraria comparata e soprattutto applicata, si capiscono al primo impatto le diverse attenzioni e potenzialità dei singoli studenti. Il loro futuro dipenderà da loro. Poi noi siamo un Paese straordinario con forti campanili e difficoltà di collaborazione. Non siamo secondi a nessuno, perché seppure siamo un piccolo paese, abbiamo individualità straordinarie.

Parliamo di Politica economica e di come questa viene interpretata. La PAC impiega un terzo del Bilancio europeo. Il valore strategico che ricopre misurato da questo è evidente. Perché in Italia abbiamo sentito il bisogno di inserire la sovranità alimentare nel nome del Ministero?

Il tema della sovranità alimentare nel mondo non nasce di certo oggi. Ce ne accorgiamo perché il governo Meloni ha deciso di integrarla nel nome del ministero, ma non è una novità assoluta. È dibattuto da decenni e ci sono organizzazioni diverse come la Via Campesina ma anche la stessa Slow Food che hanno posto l’attenzione sulla difficoltà dei paesi poveri a sopperire in autonomia ai bisogni alimentari locali per carenza di capacità produttiva che oggi è supplita dalle produzioni occidentali. L’Africa per esempio vive con le nostre esportazioni. È un’invasione necessaria, ma preferibilmente evitabile per la dipendenza che crea e per i cambiamenti che porta per esempio a livello alimentare prima e culturale poi, a discapito di tradizioni e costumi. Macron lo ha fatto prima di noi. Io non ci vedo nulla di male, anche perché la sovranità non va confusa con l’autarchia. Sbagliamo però se tale esigenza la colleghiamo al proliferare di psicosi immotivate sulla carenza di beni alimentari dovuti all’invasione russa in Ucraina. La disponibilità di cereali e olio di semi non è mai stata messa in discussione, solo sui banchi dei supermercati sono scomparsi questi prodotti, ma non per carenze di quantità in offerta, bensì per sovra acquisti compulsivi e immotivati. Investire nell’agroalimentare è una naturale vocazione europea e reclamarne il valore una conseguenza. Siamo il più grande continente esportatore dove l’agroalimentare è il primo settore manifatturiero. Nella classifica europea l’export vale 200 miliardi e ha un bilancio attivo di 70 miliardi, di fatto quello che ci serve per pagarci tutta l’energia che non abbiamo e che dobbiamo comprare. In Italia è l’agroalimentare è il settore al secondo posto dopo la meccanica e esportiamo oggi per 60 miliardi di euro. Sorrido per questo nel sentir parlare di autosufficienza. Non potremmo esportare così tanto prodotto lavorato senza importare materia prima a nostra volta. È il caso del Parmigiano Reggiano, del Grana Padano, del Gorgonzola, del Montasio e la stessa cosa per la pasta: oltre 2,5 miliardi di export che non sarebbero possibili solo con i cereali italiani.

È un problema di conformazione territoriale?

In Italia abbiamo il 75% del territorio fatto di colline e montagne, 13 milioni di ettari coltivabili, meno del 50% rispetto ai francesi e meno del 60% rispetto agli spagnoli. Se vogliamo esportare non possiamo farlo senza importare materie prime. È certamente un tema comunitario, forse anche per questo sarebbe più centrato parlare di sovranità alimentare europea.

Secondo Freshfel in Europa nei Piani Operativi (PO) delle OP ortofrutticole il budget destinato alla promozione pesa complessivamente 30 milioni di euro su un totale dei PO di 1,7 miliardi. Significa che alla comunicazione si destina l’1,8% delle risorse disponibili preferendo finanziamenti su altre linee di spesa strettamente materiali. Non solo, su 600 milioni di euro di spese di comunicazione complessive annue a livello europeo nel settore ortofrutticolo, l’80% è sostenuto dalle prime 10 aziende di settore. Perché comunichiamo così poco e male?

Perché l’ortofrutta è poco brandizzata. Prima della comunicazione serve tutto il resto, più cultura commerciale e una dimensione organizzativa superiore. Gli spagnoli ci fregano sulla dimensione, la dimensione genera organizzazione ed efficienza. Nel vino la dimensione di scala è piccola e siamo bravi anche perché nei mercati segmentati la dimensione conta meno. In ortofrutta la dimensione di scala minima è decisamente superiore e fatichiamo. Chi riesce ad aggregarsi in proporzione gode di un maggiore vantaggio competitivo in efficienza. Le nostre strategie commerciali sono limitate da bassi gradi di aggregazione. Questo ci ha portato per esempio a perdere completamente il mercato degli agrumi a favore della Spagna, settore nel quale negli anni Settanta eravamo leader indiscussi. Siamo un popolo di individualisti, in cui ognuno si sente il migliore e fatica a fare squadra. Ricordo un produttore francese parte di Sopexa che mi diceva “Non troverete mai un francese che parla male di un francese. Voi lo fate come prassi”. Parlare male di un conterraneo è come parlar male di sè. Sì, sulla comunicazione possiamo fare decisamente meglio.

Normativa, spartiacque dell’economia. Lo abbiamo visto con la normativa SUP. Ora si parla del packaging come se fosse l’unico inquinatore mentre la stessa UE dice che il 90% delle esternalità ambientali deriva dall’utilizzo di suolo, dalla produzione e dallo spreco. Noi come Bestack siamo dentro alla commissione food Loss & food Waste della DG Sante. Lì tentiamo di dare un contributo italiano per orientare le scelte di riduzione dello spreco e aumento della sostenibilità. Che si può fare di più?

Non stancarsi mai di raccontare i casi di successo, cosa hanno prodotto le innovazioni, quali benefici hanno generato, invece che perderci nell’accusa e nel lamento dell’insuccesso. Dovremmo concentrarci di più sui successi. Se penso agli spagnoli e alle serre in Almeria, da lì partono pomodori, melanzane e peperoni per tutta la Germania e fino a qualche decennio fa non c’era niente. Noi litighiamo. Loro utilizzano acqua del mare desalata e fanno 25.000 ettari in biologico sostenendo costi pazzeschi perché mancava tutto. Meglio dimenticare le lamentele e mettersi insieme. Unapera è un bell’esperimento in questo senso. Un buon segno per il futuro.

I tempi delle sue responsabilità lo reclamano. Ho imparato tanto altro, lo saluto e lo ringrazio. Decisamente sì, che nostalgia per il rito del caffè delle 9.30 in Istituto di Economia Agraria. È proprio vero che le cose più belle si apprezzano col tempo.

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