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Pragmatismo e la costante idea di futuro

Competenza ed esperienza di Renzo Piraccini – Presidente di Cesena Fiera – come lente di ingrandimento del settore ortofrutticolo italiano. Dalle carenze competitive alle potenzialità. Dagli errori da non commettere alle dinamiche da cui smarcarsi, mentre l’Africa…

Nel lavorare quotidiano avete mai avuto bisogno di un’iniezione di ottimismo, di voglia di fare, di dinamismo, di determinazione, di convinzione nelle proprie idee, di voglia di sperimentare per spostare più in là le colonne d’Ercole dell’innovazione?
Io sì, spesso, e tutte le volte che è successo, se aveva a che fare con l’ortofrutta, ho pensato in primo luogo, e non me ne vorranno altri, a una persona in particolare: Renzo Piraccini, già Direttore Generale di Apofruit per tanto tempo, ideatore del progetto Almaverde Bio e oggi Presidente di Cesena Fiera che ha nel Macfrut – la fiera italiana dell’ortofrutta – il suo fiore all’occhiello. Carismatico, competente e visionario. Quando io muovevo i primi passi in questo settore lui era da tempo un affermato manager cooperativo che aveva chiare idee in testa e come tale si poneva. Pochi convenevoli, dritto al punto che gli interessava e grande convinzione in ciò che faceva. Ecco, capite, non esattamente le qualità che mettevano a proprio agio chi ancora imberbe era e si stava facendo le ossa.

Per convinzione personale in un’edizione di Macfrut, ancora nei padiglioni cesenati della Fiera, per raccontare i valori del cartone portai prima gli alberi, poi abiti di carta e poi “Giòcartone” la declinazione a terra del gioco dell’Oca che trattava i temi del cartone ondulato (scaricabile ancora qui –  https://www.bestack.com/scuola/GIOCOtotale.jpg ), il tutto rivolto ai bambini delle elementari che a Macfrut non erano mai entrati. Ho sempre pensato nel valore dell’informazione e della formazione specie delle nuove generazioni e così a Macfrut facemmo entrare le scuole. Fu una grande novità, riproposta poi da tanti nel tempo, non ultima la Regione Emilia Romagna, ma che allora, anche per il punto nevralgico in cui eravamo, si fece decisamente notare per il vocio dei più piccoli non apprezzato da tutti, forse neanche da Renzo.

Nel tempo, mentre le ossa del sottoscritto si calcificavano e si irrobustivano, ho riconosciuto però in Renzo la curiosità di ascoltare le suggestioni altrui, da persona che tentava di integrare i propri punti di vista dando al sottoscritto la possibilità di relazionarsi in maniera sempre più paritetica. Tanta esperienza nel mercato e tanta voglia di contribuire ancora la sua, tanta la voglia di ascoltare e imparare la mia.

Renzo, partiamo da qui, dopo lo tsunami Covid come sta il settore fieristico in ortofrutta?

Il Covid ha accelerato i fenomeni, non li ha generati. A mio parere il modello di Fruit Logistica risentiva da tempo dei primi segnali di affaticamento e perdita di attrattività. Troppo grande, troppo dispersiva, tutto troppo. Credo che occorra specializzarsi. Ecco perché Fruit Attraction a Madrid funziona di più e oggi è una fiera in crescita. Raccolta negli spazi, specializzata nelle produzioni, concentrata sul mercato iberico, sulle sue connessioni latine e sul prodotto. Ecco perché Macfrut ha grandi potenzialità. Noi rappresentiamo la filiera italiana dove grande parte è rappresentato dall’indotto alla filiera, dai sistemi di selezione al packaging, dall’innovazione agronomica agli strumenti di raccolta, in cui dedichiamo grande spazio alla specializzazione.
In una parola dal seme al prodotto nel punto vendita. Dal punto vista produttivo l’Italia non è la Spagna. Noi esportiamo 5 miliardi mentre loro 13, ma se consideriamo la filiera noi siamo più forti. Personalmente credo sia passato il tempo delle grandi fiere, degli eventi unitici e totalitari. Con gli stessi soldi si fanno più fiere ma più specializzate. Non solo, il modello tedescocentrico è in crisi, i consumi calano e ci sono mercati che hanno maggiori potenzialità, vedi il Medio Oriente, dove per 100 che si consuma solo 30 si produce e il restante 70 deve essere importato. E noi abbiamo poche filiere competitive. Una di questa è quella delle mele, che in Europa è in sovrapproduzione, e deve svilupparsi sui mercati extra UE, anche se scontiamo inefficienze logistiche a livello marittimo.

A proposito di mare, ti definisci un timoniere e non un armatore. Ma invece che di mare non eri appassionato di moto e auto d’epoca?

La metafora è corretta ma soffro il mal di mare. Mi piace di più avere i piedi a terra. Credo che sia nelle mie corde gestire ed amministrare. A Cesena Fiera sono il Presidente ma anche Amministratore delegato. Riguardo alle passioni motoristiche viene più voglia d’estate, ma d’estate la concorrenza del mare, specie negli ultimi anni, è fortissima. Così uso sempre meno il mio BMW 1200 GS, fido compagno di viaggio di tragitti anche lunghi sempre con mia moglie: abbiamo attraversato la Francia più volte, ma anche Grecia, Albania, Bosnia, ma da un po’ di tempo fatico a convincerla a salire in sella dietro di me. E poi ho una Jaguar d’epoca, il sogno da ragazzo realizzato a 50 anni.

Conosci l’ortofrutticoltura italiana che è stata e quella che è, come dovrà essere quella di domani per stare in piedi?

Non riconosco l’anagrafe da tempo, ogni anno il 6 gennaio festeggio i miei 50 anni. In questo mi aiuta se ragiono di un futuro lontano. Ci sono stati momenti in passato che potevamo sfruttare meglio, cogliere la costruttività della critica. La produzione ortofrutticola italiana assomiglia al malato che cerca il dottore, non che curi la malattia dando cure specifiche e altrettante raccomandazioni di modificare per esempio lo stile di vita, ma che rassicuri, che minimizzi gli acciacchi e dica di andare avanti così. I danni maggiori li abbiamo fatti sulla frutta, gli ortaggi hanno cicli corti e quindi consentono adattamenti repentini.
A mio parere sono stati due i due colli di bottiglia che ci hanno impedito di competere per esempio con la Spagna: dimensione aziendale e costo del lavoro. Abbiamo sottovalutato i piedi di argilla che aveva la produzione e la politica non ci ha aiutato. Ci si è concentrati sulla parte commerciale ma non sull’elemento chiave e il mercato ha fatto selezione, tanto è vero che in Romagna le aziende sotto i cinque ettari non ci sono più. Ora comincia ad apparire un terzo punto chiave, la disponibilità di acqua.
Tutto questo nel complesso limita lo sviluppo, è evidente, ma i processi in atto, con ritardo, stanno avendo effetto, tanto è vero che le imprese si concentrano. La produzione continuerà a meridionalizzarsi, ci saranno meno imprese, di maggiore dimensione, più professionali e più meccanizzate. Non è un caso che siamo più competitivi sulle filiere più meccanizzate, perchè soffriamo meno il divario del costo della manodopera.

Dove siamo i più bravi e dove invece non andiamo?

In questo senso la filiera delle mele è quella più efficiente e siamo più competitivi anche perché efficienza e produttività generano benefici superiori rispetto al maggiore costo di produzione e manodopera. Su pesche e nettarine invece non riusciamo e così, se i volumi in Europa rimangono invariati, le quote maggiori se le accaparrano gli spagnoli che hanno costi di produzione e di servizio inferiori del 15% rispetto ai nostri. Così quando il mercato va bene loro guadagnano tanto e noi forse guadagniamo le briciole, invece quando i prezzi soffrono loro sono al limite mentre noi andiamo in negativo. Qui il sistema paese fa la differenza, esportiamo meno quindi abbiamo meno volumi e transit time più lunghi, tutte zavorre che appesantiscono se devi correre.

Che poi se passa tempo il tutto si complica…

Non avere curato questi aspetti acuisce il problema nel tempo, rendendo più complesso superarlo. È decisamente più facile far andar molto bene un settore che va benino, che far andare benino un settore in sofferenza, quindi sentire di perdere i primi colpi è il segnale da cogliere per tentare di risolvere alla radice il problema. Se infatti perdi una filiera o la competitività su un prodotto, si diventa marginali ed è difficilissimo recuperare e tornare a competere in quella filiera. Detto questo le difficoltà hanno selezionato gli operatori, ridotto il numero e fatto crescere la dimensione media delle aziende.
Poi oggi ci sono anche formule diverse di aggregazione, anche tra cooperative e privati, e stanno prendendo piede i club di prodotto. Così è più semplice dichiarare la promessa e rispettarla. Ma occhio perché ancora oggi si vince sui costi. Per esempio tutti i prodotti stoccati per lunghi periodi sono in difficoltà per i costi energetici e qui il sistema paese, che determina i costi energetici, fa la differenza.

Innovazione, frutti tondi e costi. Che ne pensi della raccolta meccanizzata con i robot?

Per i frutti tondi potrebbe essere certamente una strada, certo non a brevissimo. Credo che sarà applicabile a diverse specie e in un numero di paesi crescenti, ma certamente non sarà mai la totalità. Per questo è decisamente un bene la reintroduzione del governo dei voucher per la manodopera per affrontare la nostra carenza strutturale dei lavoratori stagionali. Ci sono temi di oggettività e urgenza che non possono avere vincoli identitari e ideologici.

Export e GDO. Altre strade per l’ortofrutta italiana non ce ne sono?

Lo dicono i numeri. La strada non è in discesa in nessun canale. La GDO concentrerà ancor di più i propri acquisti, e in export occorre essere più bravi degli altri. C’è chi prova l’e-commerce ma ad oggi non è una alternativa industriale ancora sostenibile. Anzi io ritengo che se vuoi perdere soldi mettiti a fare le vendite on line. Certo non sarà sempre così e quando il settore crescerà i dilettanti spariranno e i più bravi venderanno. Il tutto con modalità ibride e multicanale, vedi l’on-line che si compra il fisico come Amazon che compra Wholefood. In ogni caso a breve altre alternative non ne vedo per la struttura produttiva italiana, a parte il normal trade, che ha certamente potenzialità a patto di adattarsi alle richieste di servizio del contesto.

Facevi riferimento ai prodotti Club, contemporaneamente la GDO accelera sulle proprie marche private. Per il futuro un bel dualismo in ortofrutta…

A casa propria la GDO investirà sempre di più sulle proprie marche, per tanti motivi. Programmazione, concorrenza orizzontale, controllo dei costi, fidelizzazione di fornitori e clienti e tanto altro. Queste oggi sono le regole del gioco. Qui potranno esistere brand per nicchie di mercato ma occorre poi sapere che quando la nicchia diventa segmento allora ci si butta poi anche la GDO. Però c’è tutta l’altra area del normal trade in cui credo ci sia spazio per una maggiore affermazione dei brand della produzione. Per crescere serve una migliore organizzazione dei mercati generali con aperture diurne e servizi, come quelli che portano il prodotto alla destinazione finale. Qui c’è spazio per la distintività della marca, che ha senso quando il prodotto è oggettivamente diverso.

Se abbiamo carenze statistiche sul normal trade perché non si riesce a effettuare rilevazioni altrettanto puntuali nei mercati all’ingrosso?

Sono un convinto assertore del ruolo fondamentale dei mercati all’ingrosso. A mio parere prima di tutto occorrerebbe scorporare la gestione dalla proprietà dei muri coinvolgendo maggiormente gli imprenditori. Questo a mio parere consentirebbe di efficientare il loro ruolo di piattaforme logistiche sul territorio stimolando la nascita dei servizi più remunerativi come, per esempio, i servizi di trasporto anche all’esterno delle strutture a chi compra in mercato. Tutto questo lo si può fare solo con organizzazioni private più snelle e che non hanno tuti i vincoli di un soggetto pubblico.

Un passo indietro: anche se preferisci stare con piedi per terra, a scuola hai frequentato l’Istituto Agronomico Oltremare, dove?

A Firenze, oggi non esiste più, nato all’inizio del secolo scorso è stato chiuso nel 2015. Negli anni si specializzò nell’assistenza tecnica in campo agricolo in paesi fuori dall’Italia, specie Africa e America Latina e per questo non era sotto l’egida del Ministero dell’Istruzione ma del Ministero degli Affari Esteri all’interno delle attività della cooperazione allo sviluppo. Era un istituto sperimentale equiparabile oggi ad una sorta di laurea breve. Eravamo in 30 con una netta minoranza italiana e per questo facevamo lezione sia in italiano che in inglese. Alla fine ottenni una borsa di studio per andare in Etiopia. Sono rimasto 8 mesi a lavorare in un’azienda italiana. Io sarei rimasto ma mio padre insistette per il mio ritorno. La situazione politica nazionale e internazionale stava cominciando a ribollire, stava per arrivare la fine degli anni Settanta.

Dove peccano oggi la formazione e le imprese nel far crescere i nuovi timonieri?

Io vedo classi di giovani interessanti. Certo non ci sono vie di mezzo, ci sono ragazzi preparati e determinati e poi subito quelli mediocri. Mi capita di frequente di avere dossier e curriculum, così come di incontrare giovani con una formazione di alto livello, con il percorso giusto fatto e che hanno fatto anche esperienze all’estero. Quello che conta è se ti piace quello che fai, allora “non lavorerai mai un giorno” nella tua vita. Io tutt’ora non mi considero al lavoro. Mi diverto e mi appassiono, ancora tanto. Il food è appassionante e non finisci mai di imparare. Poi per far carriera devi avere visione, coraggio e anche fortuna.

Comunicare. Le tre regole per farlo bene?

Prima di tutto avere le idee chiare sull’obiettivo principale di dove andare. Secondo, trovare un messaggio forte e distintivo facile da comprendere da chi vogliamo ci ascolti. Da ultimo la semplicità: se devo esprimere tre concetti è preferibile fare tre comunicati distinti.

Marketing relazionale: che cos’è per te e dove lo metti tra le leve strategiche in OF?

Le relazioni commerciali si fondano sulle relazioni personali. Io ho fatto per cinque anni il direttore marketing poi sono passato alla direzione generale. Ai problemi ho un approccio imprenditoriale, le strategie funzionano se l’azienda va bene. È giusto ascoltare tutti, le diverse posizioni, ma poi occorre capire se ciò che si decide serve a far andare bene l’azienda. In questo è necessario un sano pragmatismo e costante misura di ciò che si fa. E poi darsi un tempo massimo entro il quale attendere i risultati. Poi capita anche di sbagliare valutazione e allora prima ti accorgi dell’errore meglio è. Anche l’autocritica serve per rinsaldare i rapporti

Hai detto che è importante riconoscere gli errori, uno sbaglio che non rifaresti?

Alla fine anni degli anni Novanta, ero da poco Direttore Generale di Apofruit, andai in Del Monte a Londra. All’ultimo piano l’allora amministratore delegato mi indicò un prato all’inglese con delle croci. “Vede laggiù – mi disse -, è il cimitero. Sì, il cimitero delle idee. Quando l’idea la consideriamo morta gli facciamo il funerale, la seppelliamo e non la riprendiamo più in mano”. Per abbandonare un’idea alla quale hai tenuto serve coraggio. Così ho imparato a non insistere. Il manager dipinge un quadro, ma deve sempre ricordarsi di chi è la proprietà. Abbiamo costruito il gruppo Apofruit con coraggio, etica e onestà, tutti valori che ho imparato dal primo dei grandi maestri che ho avuto, Romeo Lombardi. Il secondo, Pino Calcagni, mi ha insegnato e ispirato la visione, lui che aveva anticipato la globalizzazione 20 anni prima di tutti gli altri.

E l’Africa è…

Il continente delle opportunità, mentre qualcuno pensa sia quello dei problemi.

Lo saluto col pensiero che non sarebbero bastate altre ore per farsi raccontare esperienze, aneddoti, stimoli che oggi lo motivano. Lo incontro di persona qualche giorno dopo. Non mi chiede di questo testo, piuttosto condivide con me l’ultima proposta per la prossima edizione del Macfrut. A proposito di pragmatismo e futuro.

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