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Innovazione priorità dell’economia, ma occhio perché è la ricerca di base che consente di guardare più lontano

Rosalba Lanciotti

La prof.ssa Rosalba Lanciotti, microbiologa, ci parla di educazione alimentare e di cosa si aspetta da chi produce prodotti alimentari e da chi li vende, mettendo tutti in guardia

Norvegia. Parlo di questo paese tutte le volte che mi chiedono di un bel viaggio. Lo fu, per la profondità e l’ampiezza del paesaggio, per l’idea costante di essere a Lilliput in perenne sproporzione con la natura, per la nitidezza dei colori, per la sospensione dell’andamento lento, per le sorprese positive rispetto all’assenza di aspettativa e poi per la compagnia. Un amico del cuore e un noto professore di sociologia. Un gruppo ben assortito, ognuno con le proprie competenze e i propri talenti: il pozzo di cultura che dispensava riferimenti e riflessioni, il navigatore che aveva tracciato le tappe sulla mappa e ne conosceva le particolarità e l’autista. Mi è sempre piaciuto guidare d’altronde. Un gruppo accomunato dall’attrazione per la scoperta, in una fase della vita nella quale probabilmente ognuno dei tre, in quel paese enorme, era alla ricerca di qualcosa di sé.

Era la mia estate del 2008 e a chi condivideva con me quell’auto lenta tra montagne e fiordi maestosi raccontavo le difficoltà che stavo incontrando professionalmente. Avevo da poco iniziato ad occuparmi di scatole di cartone. Dopo gli studi di LCA di filiera mi stavo rendendo conto che, pur banale che fosse, per le confezioni in ortofrutta la priorità era il rispetto degli standard igienico sanitari, la misurazione delle condizioni reali e di quale fosse il grado di rischio alimentare, se ce n’era, che si stava correndo, al tempo, in relazione alle condizioni di lavorazione e trasporto. Ma soprattutto era fondamentale capire che ruolo avesse l’imballaggio nella “contaminazione crociata”, come la definiscono i competenti della materia, e più in generale in tutto questo. Mi serviva per capire e per migliorare.

Ma l’ortofrutta, si sa, è un mare magnum di casi particolari, di realtà diverse le une dalle altre, dove è impossibile rappresentare il contesto per molteplicità di variabili tanto da richiedere un numero di campioni di analisi enormi e innumerevoli ripetizioni per ogni singolo caso differente.

Per l’idea che avevamo non trovavamo l’interlocutore giusto in grado di costruire e realizzare una survey rappresentativa del livello igienico sanitario delle confezioni per ortofrutta, che in Italia, giusto per capirci, sono oltre 2 miliardi.

Fu allora che dal sedile posteriore la solita voce, quella per capirci che usciva dal pozzo di cultura, mi disse: “Ma scusa, perché non ne parli al prof. Bertazzoli? Io lo conosco, gliene parlo e poi tu lo chiami, è lì a Cesena, a Scienze e Tecnologie Alimentari”. E così fu, al ritorno da quel viaggio fu una delle prime cose che feci.

Entrai nel suo studio, gli raccontai idea e obiettivo e lui mi rispose, senza dirmi il nome, che aveva la persona adatta a capire se e come svolgere quella ricerca. Fu così che tutto iniziò con la prof.ssa Rosalba Lanciotti, con la prima analisi portata a termine nel 2011 a cui nel 2015 seguì il brevetto dell’imballaggio Attivo!, fino alle ricerche recenti in materia di persistenza virale sui diversi materiali. Anche per questo ho un bel ricordo della Norvegia.

Rosalba, una marchigiana in Romagna con una parentesi foggiana. Dal primo ottobre 2018 coordinatrice del Corso di Studi in Scienze e Tecnologie Alimentari del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro-Alimentari (DISTAL) e dal 12 febbraio 2020 Vice Direttore. Un aneddoto che ricordi con piacere del tuo arrivo a Bologna?

Sono tanti gli aneddoti, tutti con lo stesso minimo comune denominatore. La mia ingenuità da ragazza di campagna che incontra la grande città. Venivo dall’entroterra di San Benedetto del Tronto, ad oltre 3 ore e mezza di treno, e divenni ben presto famosa per la mia ingenuità, perché mi facevo impietosire da tutti, da chiunque chiedesse aiuto. Fu così che prestai i soldi ad un soggetto, ben conosciuto da tutti a parte la sottoscritta, che in maniera seriale fingeva di rimanere a secco con la vespa. Gli prestai i soldi per la miscela ma all’appuntamento per la restituzione il giorno successivo lui non si presentò. Allora abitavo in via Massarenti, di fronte al Sant’Orsola, e capitò pure che pagai il bollettino dell’Enel del mio vicino, medico spesso assente, ai tecnici che erano venuti per disattivare l’utenza, a loro dire, per motivi di inadempienza dei pagamenti.
Peccato che lui il bollettino lo avesse già pagato. Ci mise più tempo ad avere il rimborso lui, del tempo in cui sarebbe rimasto senza luce se non fossi intervenuta. All’epoca Bologna era bellissima, aperta, multiculturale e multietnica. Una città che amo profondamente per il senso di libertà che mi ha regalato in quegli anni: in bicicletta, anche di notte, senza alcun senso di inquietudine. Alla laurea seguì un anno di scuola di specializzazione in Chimica e biotecnologia degli alimenti, poi il dottorato in Biotecnologie degli Alimenti, una borsa di studio CNR, la vittoria del concorso da ricercatore a Foggia, e lì le ore di treno erano sei, e infine, dopo 4 anni, il ritorno a Bologna.

Dopo anni bui i dati dicono che c’è un forte ritorno di iscrizioni alle facoltà di agraria in Italia, perché?

I motivi sono diversi. Prima di tutto si guarda all’agroalimentare con occhi diversi, l’agricoltura è divenuta multifunzionale ed è sinonimo di qualità ed eccellenza. In tutto questo credo che l’Università sia stata abile nell’interpretare questo cambiamento, differenziando e specializzando la propria offerta formativa. Nel nostro Dipartimento abbiamo ben 14 corsi di laurea in ambito agricolo e alimentare. Abbiamo modellato l’offerta formativa sulle sfide della società confrontandoci costantemente con le parti sociali. Diamo importanza a tematiche quali agricoltura di precisione, riduzione dell’impatto ambientale, sostenibilità, miglioramento della qualità delle materie prime e dei prodotti alimentari, cioè a tematiche al centro dell’interesse dell’opinione pubblica, perché strategiche per salvaguardare l’ambiente e per meglio utilizzare le scarse risorse globali.
Gli iscritti di Scienze Agrarie triennali e magistrali (con sede a Bologna) sono passati dai 376 dell’A.A. 2010-2011 a ben 715 dell’A.A. 2020-21. Gli iscritti del Campus di Scienze degli Alimenti di Cesena (dove abbiamo i corsi triennali di Viticoltura ed Enologia e Tecnologie Alimentari e quello magistrale di Scienze e Tecnologie Alimentari) sono passati, sempre facendo riferimento agli stessi anni accademici, da 521 a 780, con un incremento significativo anche dei fuorisede.

In epoca Covid che significa fare ricerca, che responsabilità senti e cosa chiedi come consumatrice?

La responsabilità della ricerca è grandissima sempre, ma diventa enorme quando parliamo di prodotti alimentari e salute dei cittadini. Solo la scienza può dare strumenti per affrontare le problematiche connesse, per esempio sicurezza, conservazione, salubrità dei cibi, ed individuazione di fonti proteiche alternative e più sostenibili. Per fare questo occorrono risorse umane eccellenti, innovazione costante, strumenti specifici e all’avanguardia in grado di generare risultati e processi esportabili al di fuori dei laboratori e “scalabili” nel mondo reale. Più la ricerca riesce ad essere libera e scevra da interessi diretti, maggiori sono i vantaggi in prospettiva e l’ampiezza di applicazione. Oltre a ciò, nell’era dell’omnicanalità mediatica è altrettanto importante un’attenta divulgazione e comunicazione dei risultati della ricerca, in modo che questi possano incidere in maniera efficace sul tessuto produttivo e sociale e generare nella pratica comportamenti virtuosi, cultura ed educazione.

Come consumatrice vorrei una ricerca applicata senza dimenticare la ricerca di base perché è fondamentale. Mai specializzarsi troppo e concentrarsi solo sui risultati che possono avere ricadute immediate. Così ci precludiamo la possibilità di avere soluzioni apparentemente inutili ma fondamentali in casi inaspettati.

In futuro gli ambiti prioritari saranno certamente quelli legati alla tutela dell’ambiente, alla salvaguardia della salute e all’alimentazione della popolazione mondiale, alla gestione delle scarse risorse ambientali, cercando di assicurare una loro equa distribuzione per garantire un tenore di vita adeguato a tutti.

Università e aziende. Un connubio a corrente alternata. Quando funziona? È la ricerca che deve cercare l’impresa o viceversa?

Funziona quando è sinergica. Succede quando imprese e università hanno un obiettivo comune, sinergico appunto e non solo additivo, e mettono a disposizione l’una dell’altra le proprie conoscenze. A noi il compito di scendere dalla cattedra per trovare punti di incontro anche in termini di linguaggio e di contesto. Senza mettere assieme le mutue conoscenze non si arriva a risultati trasferibili al mondo reale. L’imballaggio Attivo è un esempio di sinergia tra mondo produttivo e università e per questo un caso di successo. Ne abbiamo tanti altri sviluppati con diverse industrie tra cui, ad esempio, Barilla, il Caseificio Mambelli, Molini Pivetti, Niro Soavi GEA, Amadori, Terre Emerse, etc..

Secondo una microbiologa affermata e al contempo madre, quale sono le priorità, i punti da approfondire, i problemi da risolvere o gli ambiti da innovare da parte della filiera alimentare?

Oggi credo come mamma che la qualità dei prodotti alimentari in Italia sia molto elevata, anche perché le aziende italiane fanno sempre più spesso ricerca collaborando con le università anche nell’ambito dei centri specificatamente dedicati al trasferimento tecnologico, come ad esempio il CIRI-AGRO di Cesena, o di progetti competitivi, anche europei. Però dobbiamo lavorare di più sull’educazione alimentare. Stili di vita cambiati, pasti fuori casa, sedentarietà, telelavoro possono portare a modelli alimentari sbagliati che si riflettono negativamente sulla salute dei consumatori. Da mamma credo che la qualità dei prodotti debba essere accompagnata da una corretta cultura ed educazione alimentare.
Dobbiamo investire di più su questo. Significa anche incentivare la preparazione dei pasti; significa riappropriarsi dei modelli alimentari della nostra tradizione, della dieta mediterranea, ad esempio, magari rivisitata, grazie alla ricerca, in chiave moderna (con prodotti anche pronti adatti al consumo fuori casa o in grado di intercettare i gusti dei bambini e dei giovani); significa tornare alle radici e alla cultura gastronomica assicurando nel contempo sicurezza e standard igienici e qualitativi eccellenti. L’alimento non può essere solo una mera fonte di nutrienti ma deve essere molto di più. Così come non può essere una medicina, bensì gusto e cultura, evitando lo spreco. Per questo tengo molto ad Attivo, come ricercatrice ma soprattutto come mamma consumatrice.

Ecco questo è il punto che forse interessa di più alla grande distribuzione. Occhio alle mamme consumatrici microbiologhe!

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