vai al contenuto principale

Lettera alla filiera

Riflessioni sparse sul concetto di sostenibilità collettiva nella filiera ortofrutticola. Su quali parti concentrarsi e su cosa non cedere il passo. Con un occhio molto attento alle CIFRE, oneste e trasparenti e non di parte, poi nessuno più ascolta. Perché la sostenibilità e i costi non si giudicano solo dall’imballaggio. A ciascuno i suoi oneri e i suoi onori nell’interesse della vera sostenibilità di filiera

di Claudio Dall’Agata

Lo stimolo viene dall’ennesima notizia che riporta l’ultima puntata sulla sostenibilità. La riflessione che ne deriva è uno stimolo per alzare tutti lo sguardo nell’interesse collettivo. “Lettera a una Professoressa” fu il famoso libro scritto da Don Milani insieme ai suoi studenti di Barbiana sulla “Buona Scuola” pubblicato per LEF nel 1967. Per molti un libro identitario di una generazione, di quella che fece poi il Sessantotto. “Lettera a una professoressa” fu un invito a riorganizzare la scuola, a immaginarla con un punto di vista diverso. Queste righe con la stessa logica, ispirate da quello spirito di miglioramento, vanno nella direzione per contribuire a sviluppare ragionamenti condivisi sulla sostenibilità nell’interesse di filiera, specie su un tema così complesso, articolato e potenzialmente pericoloso anche alla luce dei futuri scenari normativi.

Senza scivolare nella dottrina, occorre definire prima di tutto quale sostenibilità stiamo cercando – prima di misurarla –  e soprattutto sostenibilità di che cosa. Dalla definizione segue la priorità con cui affrontarla. A mio vedere il punto da cui partire è l’oggetto di scelta del consumatore, in cosa si realizza l’atto di acquisto: quindi decisamente il prodotto di consumo finale.

Sappiamo bene infatti quanto contino i comportamenti dei consumatori nel generare impatti. E questo vale anche per noi che ci occupiamo di imballaggi. Lo sosteniamo da tempo e ne abbiamo avuto piacevole conferma sul punto anche da autorevoli esponenti che recentemente si sono esposti sul tema ad un convegno ad Ecomondo 2022. “Sostenibilità: il prodotto al centro, finalmente”, questo era il titolo del nostro approfondimento che trovate a questo link. Quindi la sostenibilità vera, ricordiamolo, è di fatto sprecare il meno possibile, non rendere vano cioè l’impiego di risorse se poi il prodotto realizzato per tanti motivi non viene consumato. Se questo è il cuore del problema allora è corretto approcciare il problema con CIFRE, così come giustamente suggerisce in un recente post su Linkedin Matteo Freddi, ma riferite all’impatto complessivo del prodotto e non solo all’imballaggio.

Partiamo da qui, dalle cifre. EDGAR – Emissions Database for Global Atmospheric Research del Centro comune di ricerca UE (JRC) – servizio scientifico interno della Commissione Europea – ha quantificato l’impatto della filiera agroalimentare per ciascuna fase produttiva, qui il link: le cifre dicono questo. Fatto 100 l’impatto complessivo legato al rendere disponibile un prodotto alimentare sulla tavola dei consumatori, questa è la ripartizione per fasi: 31,4% utilizzo di suolo, 39,2% coltivazione, 3,9% trasformazione, 4,9% trasporti, 4,9% packaging, 3,9% retail, 2,9% consumo e 8,8% spreco alimentare. Certo è una media tra tutti i prodotti agroalimentari e probabilmente l’ortofrutta ha numeri diversi, ma indica comunque gli ordini di grandezza. Se la sostenibilità è quindi una priorità per tutti, a ognuno il peso della propria fase. Sottolineo questo perché se per noi la priorità è la sostenibilità dell’imballaggio, per ognuno dovrebbe essere la sostenibilità della propria parte, nell’interesse della filiera, appunto.

Il ragionamento si pone ancora di più se all’imballaggio spesso si regala il ruolo della cartina torna sole della sostenibilità del prodotto nel suo complesso, come se la sostenibilità dell’Estathè passasse solo dal materiale cambiato della cannuccia e non da come è fatto quel prodotto o da che processi implica. Un altro esempio la Coca Cola in lattina e il materiale del blister che tiene insieme la confezione da 6, così come tanti altri esempi dello stesso tipo che confermano la transizione da plastica a carta e cartone. Esempi che porto non per far leva sulla transizione, ma per indicare qual è il tema su cui, a mio parere, si scivola a torto.

Concordo certamente con chi ha un approccio più serio che va oltre la superfice. Con chi dice che la sostenibilità di un materiale dipende anche dal comportamento in termini di riciclo del materiale. Certo, ma la maleducazione dell’uomo comune è al tempo stesso un elemento al contempo da combattere ma anche da tenere in considerazione fino alla sua sconfitta. Così come ci sono sistemi di riciclo più virtuosi di altri. Così come sistemi di riuso altrettanto efficienti. In tanti abbiamo iniziato a fare studi di LCA, ognuno per propria parte con risultati, per assunzioni ognuno diverse, che tra loro cozzano e non collimano e che premiamo una parte o l’altra, se non altro anche perché ci si concentra sugli esempi – e ognuno ha il suo – in cui si risulta la soluzione preferibile.

Ecco così non credo si faccia un buon servizio all’opinione pubblica, alla filiera, alle istituzioni e alla GDO, che di studi partigiani e contraddittori ne ha pieni i fossi e che per questo li considera sempre meno. Anche per questo le recenti prese di posizione sulla migliore sostenibilità di un materiale di imballaggio rispetto ad un altro, a mio avviso non centrano il problema. Tema lecito e importante, certo, ma che vale il 4,9% dell’impatto ambientale medio del pack, come indicato dallo studio di JRC, sul totale di un prodotto alimentare. Lì l’industria del pack è pronta, lo sappiamo bene, e noi disponibili a parlarne ancora di più in maniera trasversale. Però c’è anche quel 70,6% di impatto legato alla produzione agricola che dovrebbe avere le stesse priorità e gli stessi approcci.

Per questo dopo aver iniziato ad applicare alla nostra filiera l’approccio delle PEFCR – product environmental footprint category rules, metodologia comune riconosciuta in UE – abbiamo stimolato il CSO Italy in rappresentanza della comunità della filiera ortofrutticola a intraprendere la stessa strada per diminuire quel 70,6% di impatto. Lieti quindi che alcuni prodotti, pera e kiwi in testa, stiano, come noi, definendo i passi per potersi fregiare della certificazione Made Green in Italy sulla base di una metodologia condivisa da tutti, che quindi anche in questo caso parla di CIFRE.

C’è poi il tema dei costi e anche qui in trasparenza non brilliamo. Ho preso quindi con grande interesse la notizia che Auchan ha comunicato le voci di costo delle mele che vende che così recita “il prezzo di un 1kg di mele venduto a 1,99 al kg è ripartito tra i diversi attori della catena di approvvigionamento: per il 34% come remunerazione per i produttori (prodotto, conservazione e lavorazioni), il 20% per i costi di confezionamento, il 16% per i costi di trasporto e di logistica, per il 25% per il processo di distribuzione e il 5% è l’equivalente dell’IVA italiana”. Apprezzabile la trasparenza, sarebbe auspicabile comprendere il valore aggiunto che ciascuna fase produce nella definizione del prezzo finale. Sì perché ci sono casi in cui l’imballaggio non è sostituibile o la sua assenza non consentirebbe la vendita del prodotto. Ecco, anche per questo probabilmente nel rincorrere la sostenibilità complessiva sarebbe altrettanto utile che ogni fase si concentrasse sulla parte di valore che produce, e non solo sul presunto disvalore di altri, ognuno con trasparenza per propria parte, capendo il valore di ciascuna parte e di quanto pesa nella sostenibilità collettiva. Diversamente la metafora dei tre capponi di Renzo, che si beccano tra loro, incoscienti di andare al macello, è ben calzante.

Chiudo sulla suggestione dell’importanza della relazione tra fatti e narrazione su cui ha incentrato la sua lectio magistralis Alessandro Baricco al convegno del 27 febbraio in Apot. Se sul fare non c’è dubbio, occorre avere altrettanta attenzione al raccontarlo con verità e trasparenza, a volte partendo da quali fatti si comunicano meglio per poi farli. Differentemente invece che aver raggiunto la luna, ci si limita ciecamente ad indicarla.

Condividi questo articolo
Torna su
Cerca